Il drammatico agguato e l’omicidio del giudice Rosario Livatino

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Il 21 settembre 1990 la giovane vita di Rosario Livatino s’interrompe drammaticamente. Di buon mattino inizia a percorrere in automobile la strada statale 640 Caltanissetta-Agrigento. Ad attenderlo ad Agrigento, in qualità di giudice a latere, un’udienza difficile che potrebbe condannare al soggiorno obbligato alcuni mafiosi. «In Sicilia e ad Agrigento – spiega Roberto Mistretta – è in atto una faida senza precedenti tra due opposte cosche mafiose che vogliono prevalere l’una sull’altra. Una guerra senza esclusione di colpi. Una guerra fatta di morti ammazzati. È la guerra tra Cosa nostra e la Stidda, prima della grande pax, quando le due organizzazioni criminali troveranno il modo di accordarsi per spartirsi gli affari illeciti e accumulare profitti. La Stidda è un’organizzazione emergente, composta anche da ex braccia di Cosa nostra».

Livatino – che nel mese di ottobre, avrebbe compiuto trentotto anni – viaggiava senza scorta. Peraltro, quando qualcuno gli faceva osservare l’utilità di tutelare la sua incolumità personale, Rosario rispondeva: «Non voglio che altri padri di famiglia debbano pagare per causa mia» (all’insegnante del liceo, Ida Abate); oppure (ai genitori): «In caso di emergenza, cioè di attentato, è meglio che soccomba uno solo, anziché altri della scorta». Luigi Gallo, amico del magistrato, a tal proposito racconta: «Il timore che potessi essere coinvolto nella tragedia, che prevedeva, lo spinse, nell’estate del 1990, a non darmi più passaggio in macchina, quando mi recavo ad Agrigento. “Vieni con la tua auto”, mi disse, “non vorrei che, se mi succedesse qualcosa, tu ci andassi di mezzo”». Del resto, il senno di poi, ci permette di affermare, e con certezza, che a “tutelare” il giudice Livatino c’era qualcun Altro!

La Ford Fiesta amaranto di Rosario Livatino viene affiancata da una Fiat Uno, e una scarica di fucile caricato a lupara colpisce l’automobile del magistrato, mentre da una moto provengono altri colpi di pistola. Rosario riesce ad uscire dalla sua auto e tenta di rifugiarsi nel vallone sottostante il viadotto scavalcando il guardrail. I killer gli corrono dietro per azzannare vigliaccamente la loro preda. «Cosa vi ho fatto, picciotti?», grida Livatino, con la semplicità e il garbo che non vengono meno anche di fronte alla ferocia di un criminale. «Tieni, pezzo di merda!», risponde sprezzante l’assassino, che spara in bocca e alla tempia del giovane magistrato.

Tra i primi a giungere sul luogo dell’omicidio, il giudice Paolo Borsellino, che – il giorno dopo – sfogandosi dirà: «Ne ho visti tanti di colleghi e amici uccisi, ma questo delitto mi ha sconvolto. Cerco di immaginare la ferocia degli assassini, il terrore del giovane collega che fugge, disperato, dopo aver visto in faccia i suoi carnefici. Adesso aspettiamo i prossimi morti, il prossimo della lista…».

Gli ultimi istanti della vita di Rosario Livatino sono stati raccontati da un testimone milanese, Pietro Ivano Nava, che – dopo aver forato una delle ruote della sua automobile, e percorrendo lentamente la strada statale 640, in quel drammatico 21 settembre – riconoscerà gli esecutori materiali dell’omicidio Livatino, e collaborerà (a prezzo di una nuova identità e del cambiamento radicale della sua vita) con le forze dell’ordine e gli investigatori per rintracciare e condannare i responsabili dell’omicidio.

Michelangelo Nasca, “Rosario Livatino. Sotto lo sguardo di Dio”, Ed. Messaggero di Padova, 2020.

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